A Rocca di Sasso, un paese di fantasia “imitato dal vero” sulla base dei tanti paesini della Valsesia, il tempo sembra non passare mai. La montagna, immobile, domina, rispettata e temuta. Sotto le sue pendici formicola la vita degli abitanti del paese, con i suoi piccoli e grandi andirivieni, dalla Prima guerra mondiale ai giorni nostri. Vassalli disegna i caratteri e tesse i destini, facendo di questo piccolo mondo un frammento di vita universale. Nel coro spiccano il maestro Prandini, socialista, volontario in guerra, mutilato, poi legionario a Fiume, poi gerarca fascista; e Ansimino, autista di corriera e più tardi meccanico, sposato con una pittrice e padre di Leonardo, che farà il partigiano. Intorno a loro vive tutta la comunità, tra pettegolezzi, tradimenti, cene dei coscritti, aspre scene di guerra, lutti: un mondo fatto di tante storie che si incrociano e che Vassalli annoda, con sapienza e ironia, in un’epica umanissima; un’intera civiltà, brulicante di vite, che si anima sulla pagina poco prima di sparire per sempre inghiottita dall’oggi.

 COME INIZIA IL ROMANZO

Tutto incomincia con quattro spari che riecheggiano nel silenzio della montagna.
Tutto incomincia con un corpo immobile nella neve macchiata di sangue, e con un pezzo di latta: forse una spilla, che qualcuno ha buttato su quel corpo. Sulla spilla, che verrà conservata a lungo nei depositi di un tribunale, come «firma» dell’assassino e quindi anche come elemento fondamentale per le indagini, si leggono, stampate in rilievo, le parole: «Non più servi non più padroni».
Il corpo rimasto immobile nella neve risulterà essere appartenuto al maresciallo Ermes Prandini di anni trentasei, sposato e padre di un bambino di due anni all’epoca di questi avvenimenti. L’infante Luigi Prandini, figlio della vittima, non conserverà nessuna memoria diretta di suo padre. Crescendo, conoscerà e ricorderà il viso di un uomo con i capelli tagliati «a spazzola», lo sguardo severo e le labbra serrate, con gli angoli della bocca piegati leggermente all’ingiù. In pratica, conoscerà e ricorderà la fotografia che sua madre tiene sul cassettone in camera da letto, chiusa dentro una cornice di madreperla. Dei funerali del padre, invece, il piccolo Luigi ricorderà qualche frammento di immagine e qualche suono, avvolti in una specie di nebbia. Ricorderà l’eco delle parole (non le parole, ma la loro risonanza tra le navate della chiesa parrocchiale di Oro) dei due discorsi commemorativi: quello del parroco e quello di un ufficiale del corpo dei carabinieri, a cui era appartenuto suo padre. Ricorderà se stesso in braccio a sua madre Immacolata, e il viso dell’ufficiale che si avvicina a quello della donna per dirle: «Sappiamo chi sono gli assassini e li prenderemo. Vi do la mia parola d’onore che verrà fatto tutto ciò che è possibile per assicurarli alla giustizia». (Ma a lui, poi, verrà detto che suo padre è stato ucciso da un «contrabbandiere» rimasto anonimo).
Ricorderà, in bianco e nero, il corteo funebre. Uomini e donne senza volto che camminano verso il cimitero del paese, e i rintocchi delle campane distanziati uno dall’altro. Don. Don. Don.
Questi sono i primi ricordi del nostro primo personaggio. La sua vita incomincia così, con un funerale e poi pian piano i ricordi si legano tra loro, diventano un’infanzia piena di giochi e di avventure, in un villaggio chiamato Oro per via delle miniere che ancora si vedono sul fianco della montagna e che un tempo, dicono i vecchi, erano state ricche del prezioso metallo. Un luogo di giochi (pericolosi) e di avventure (a volte mortali) sono proprio quelle miniere abbandonate, dove i bambini non dovrebbero assolutamente entrare e in cui, ogni tanto, qualcuno finisce per perdersi o per cadere in un pozzo senza vie d’uscita. Un altro luogo di giochi e di esplorazioni, per il piccolo Luigi e per i suoi compagni, è il greto del fiume che discende dal Macigno Bianco e che noi chiameremo Maggiore (così come chiameremo Maggiore la valle dove si trova il villaggio di Oro), per distinguerlo da un suo affluente: il fiume Minore, e per distinguere tra loro le due valli, dove vivono i nostri personaggi e dove si svolgeranno i fatti più importanti della nostra storia. Naturalmente, sia la valle Maggiore che la valle Minore, e anche la grande montagna: il Macigno Bianco, nelle carte geografiche si chiamano in un altro modo. Chi vorrà scoprire i nomi della realtà non farà fatica a trovarli; ma poi, forse, capirà che lo spazio in cui si svolgono le storie non è lo stesso della nostra vita quotidiana, e che a volerlo cercare sugli atlanti, qualcosa, se non proprio tutto, finisce sempre per perdersi.
Capirà la ragione di questi nomi fittizi: la valle Maggiore e la valle Minore.
Il Macigno Bianco.
Ma torniamo al nostro primo personaggio e alla sua infanzia.
L’infanzia e l’adolescenza di Luigi Prandini e di tutti gli altri ragazzi come lui, che vivono nella sua stessa epoca e in queste valli intorno alla grande montagna, sono dominate dalla religione e dai suoi simboli. Ci sono, nella chiesa parrocchiale di Oro dedicata all’arcangelo Michele, le pitture che rappresentano il giudizio universale con i beati tutti da una parte, i dannati tutti dall’altra e Dio giudice in mezzo. Ci sono i discorsi e le prediche di chi, in ogni villaggio, amministra la vita e la morte, cioè dei preti. Ci sono le idee fisse della signora Immacolata, madre di Luigi; che dopo la perdita del marito si rifugerà in un suo mondo di devozioni, di cerimonie religiose, di visioni, e che alla fine, quando il figlio sarà diventato adulto, entrerà in un convento. Ci sono le tante chiese e cappelle sparse sulle montagne con le immagini della Madonna e di san Cristoforo, il santo traghettatore che porta in salvo le anime nel fiume del peccato e che è anche il santo protettore delle nostre valli. Sopra tutte queste cose, però, nella valle del fiume Maggiore e nei pensieri di chi ci è nato e ci vive c’è la presenza di Dio, che abita nella grande montagna e che, almeno in un certo senso, è la grande montagna.
Vogliamo parlarne?

(da Sebastiano Vassalli, Le due chiese, Einaudi, Torino 2010)

UN GRANDE SCRITTORE

Sebastiano Vassalli vive fin da bambino a Novara. Laureato in Lettere a Milano, discutendo con Cesare Musatti una tesi su “La psicanalisi e l’arte contemporanea”, dagli anni sessanta e settanta si dedicò all’insegnamento e alla ricerca artistica della Neoavanguardia, anche nella pittura. In seguito si è dedicato alla scrittura: oltre alla letteratura ha fatto giornalismo, scrivendo per “Repubblica” e “Corriere della Sera”; attualmente è opinionista della ” Stampa”. L’opera di Vassalli si distingue per il profondo lavoro di ricerca storica, per lo più riferita all’evoluzione delle componenti sociali (religione, politica, differenze di genere) e i suoi romanzi, infatti, sono spesso ambientati in un determinato contesto storico o in un ipotetico futuro e l’occhio dello scrittore si dedica a costruire intorno ai personaggi del libro una rappresentazione realistica della società da usare come base per un confronto con la società attuale. Nelle sue opere è anche possibile trovare una forte componente territoriale: il Piemonte è spesso la cornice delle vicende narrate. Il territorio vive la vicenda e molto spesso evolve con essa (ad esempio, la città in Archeologia del presente o Zardino in La Chimera). L’amore di Vassalli per il Piemonte è testimoniato anche dal libro fotografico Il mio Piemonte e da Terra d’acque. Novara la pianura, il riso. Gli è riconosciuta una grande capacità di rappresentare in forma estremamente semplice il carattere dei personaggi, fissandone gli elementi che permangono al di là del trascorrere del tempo. Vassalli è uno dei maggiori scrittori italiani contemporanei.

Scheda biobibliografica sull’autore
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